I risparmiatori italiani continuano a navigare in un mare di liquidità. Gli ultimi dati di Bankitalia evidenziano a fine 2018 uno stock di quasi 1.400 miliardi di euro tra conti correnti, depositi e biglietti.
Dal 2008, data simbolo della grande crisi, la massa di liquidità è aumentata di circa 300 miliardi. Il trend è stato in costante crescita anche negli ultimi anni nonostante il clima sui mercati finanziari sia stato sicuramente più accomodante (escluso gli ultimi mesi dello scorso anno). Per esempio, relativamente ai conti bancari e postali solo nel 2018 il flusso di incremento dello stock è stato di ben 20 miliardi dopo i 25 miliardi circa dell’anno precedente.

Rendimenti a zero Il fattore distintivo dell’ultimo decennio è stato il massiccio intervento delle banche centrali con i tassi spinti a zero. Questo ha determinato rendimenti nulli anche per i conti correnti. Oggi nell’area euro il tasso di riferimento Bce resta ancorato a zero e per strappare qualche decimale occorre vincolare i propri soldi su un conto deposito. L’assenza di alternative remunerative a rischio zero spinge i risparmiatori a tenere i soldi sul conto anche se la gestione costa secondo l’ultima indagine
di Banca d’Italia (in media 79 euro annui quelli tradizionali e 15 euro per quelli online).

Il peso dell’inflazione
La massiccia esposizione alla liquidità espone a rischi palesi (le regole sul bail in per chi ha oltre 100mila euro oppure una tassazione patrimoniale) e rischi occulti come l’inflazione. Il risparmiatore medio snobba l’impatto del rialzo dei prezzi anche perché negli ultimi anni l’aumento del costo della vita è decisamente più contenuto rispetto a 20 o 30 anni fa. Ma l’inflazione continua a lavorare in silenzio e nel 2018 è stata in media poco sopra l’1%, inferiore alla media dell’area euro.
Questo non impedisce che, in assenza di rendimenti, l’inflazione di fatto abbia «bruciato» almeno 10 miliardi di euro (visto che alcuni depositi sono remunerati). Un costo implicito che impone comunque di valutare strategie alternative, almeno per una parte della liquidità non necessaria, ponderando i rischi. L’obiettivo è quello di puntare su asset «sicuri» a bassa volatilità che possano evitare perdite durante la vita dell’investimento, per poter essere ritirate in qualsiasi momento.

Educazione e previdenza
Non bisogna dimenticare inoltre anche il basso livello di educazione finanziaria, dove il nostro Paese è presente in fondo alle classifiche internazionali. Questo non agevola a trovare soluzioni alternative come i piani di accumulo su asset class con un profilo di rischio/rendimento più elevato. Spesso è difficile spingere verso altre soluzioni persone che sono tradizionalmente legate alla liquidità e percepiscono le asset class di investimento solo come rischio. «Un altro fatto che spinge gli italiani a essere molto liquidi è la scarsa copertura assicurativa. Siamo un popolo che, se escludiamo la copertura obbligatoria per l’auto, ricorre poco frequentemente ad altre coperture (dal Vita, al rischio invalidità e altro). Si tengono i soldi sul conto per far fronte alle emergenze ma non è una soluzione efficiente». In Italia si spendono 100 miliardi per il gioco d’azzardo mentre alle polizze contro i rischi gravi vanno solo 4,8 miliardi.

Ma quanto costa non investire? Diecimila euro posteggiati su un conto infruttifero dopo cinque anni diventano poco più di 9 mila, per colpa di costi e inflazione. Investiti in obbligazioni internazionali, ipotizzando di riuscire a ottenere gli stessi rendimenti medi del periodo 1900-2017, dopo cinque anni possono diventare 11 mila. L’elaborazione realizzata da AdviseOnly tiene conto di un periodo di tempo molto lungo, in cui si sono susseguiti periodi buoni e stagioni cattive per i mercati.

 

Fonte: Corriere della Sera